Smart City, EY punta sull’Italia come laboratorio di un futuro sostenibile
Quello delle Smart City, più che possibile, è un futuro “obbligato” per il bene dell’umanità. Con prospettive importanti nel mercato del lavoro, visto quanto sono destinati a crescere i livelli di occupazione determinati dalla nuova configurazione e strutturazione dei centri urbani. Dove settori come i sistemi gestionali, la domotica, la sicurezza e la riqualificazione di spazi stanno acquisendo sempre più peso. E dove, per un futuro davvero sostenibile, l’Italia si presenta come laboratorio ideale in cui intrecciare la dimensione global con infinite realtà glocal, indispensabili per salvare un principio necessario come l’identità.
In seno alla società di consulenza EY, colosso globale che conta oltre 270 mila persone in più di 150 paesi nel mondo, il principio è così chiaro da prevedere una specifica divisione “Future of Cities”. Il leader mondiale Advisory del team di esperti è un ingegnere italiano, Gianluca Di Pasquale, manager con importanti esperienze maturate nei mercati delle telecomunicazioni, mobilità e trasporti, energia e Finance.
– Ingegner Di Pasquale, il futuro dell’umanità è sempre più urbanizzato, pare di capire.
“Se è per questo lo è già anche il presente, in cui l’80% del Pil mondiale viene prodotto in contesti urbani”.
– Con quali tendenze in atto?
“Assisteremo a città sempre più espanse e popolate. In base ai dati attuali per il 2050 si prevedono 43 megalopoli da oltre 10 milioni di abitanti, e 600 metropoli sopra il milione”.
– Per queste nuove città esiste un modello di Smart City che va ormai definendosi compiutamente, e al quale riferirsi?
“Esistono tendenze rilevanti, ma all’interno di un contesto globale molto fluido e complesso per poterne ricavare un’immagine così univoca. La stessa definizione di Smart City è in procinto di essere rielaborata e, forse, superata”.
– In che modo?
“Dalla nostra vita quotidiana, né più né meno, condizionata dall’avvento di una nuova era geologica, che molti scienziati sono concordi nel chiamare Antropocene”.
– Dove il fattore determinante è dunque l’uomo stesso.
“Esatto, l’uomo che con una mano elabora ed edifica queste metropoli sempre più informatizzate, digitalizzate e sostenibili, mentre con l’altra concorre in modo decisivo a generare cambiamenti climatici che impattano sull’ecosistema globale: aumento del CO2 nell’atmosfera, innalzamento degli oceani, scioglimento dei ghiacciai. Con conseguenze misurabili già da tempo”.
– A cosa allude?
“A dati costanti come gli oltre 400mila decessi all’anno che solo nell’Unione Europea sono attribuibili all’inquinamento generato dall’eccessiva anidride carbonica, ma anche a dati contingenti, come i 600 milioni di individui che in India hanno patito per un anno intero le conseguenze di una crisi idrica senza precedenti”.
– Un quadro per certi versi drammatico.
“Come può esserlo una sfida. Secondo le stime del Global Footprint Network l’umanità già a fine luglio, aveva esaurito le risorse disponibili per il 2018. Ciò significa che nei restanti cinque mesi abbiamo solo inquinato il pianeta. Nel giro di pochi anni questa soglia deve essere riportata sensibilmente verso il 31 dicembre”.
– In cosa possiamo sperare?
“Nelle spinte sempre più forti che arrivano dalla società civile. Lo si è visto in America, dove i sindaci delle più importanti metropoli hanno detto no alla cancellazione, voluta dal presidente Trump, degli accordi sul clima firmati a Parigi dal suo predecessore Obama. Ma anche il grande capitale privato subordina sempre più spesso i propri investimenti alla sostenibilità dei territori dove intende operare.”.
– Sono interventi che implicano spese elevatissime.
“Per fronteggiare adeguatamente la situazione si calcola che occorrerebbero investimenti per circa quattro trilioni di dollari all’anno. Oggi, tali investimenti provengono soprattutto da partnership fra pubblico e privato, dove il ruolo del privato è destinato ineluttabilmente a crescere, perché la sostenibilità costituisce un business allettante, oltre che indispensabile. Anche in Italia si rilevano esempi virtuosi, in tal senso, come Hera, il gruppo multi-utility emiliano caratterizzato da una vocazione strutturale per l’economia più circolare, sia nel ciclo tecnico (materiali non rinnovabili) sia in quello biologico (risorse rinnovabili), e all’innovazione Smart, dai cassonetti intelligenti all’illuminazione pubblica”.
– È confortante sentire arrivare good news dal nostro Paese.
“Che deve comunque predisporsi a mutamenti forti, a cominciare dalla decrescita della popolazione. Sempre per il 2065 sono previsti sei milioni di italiani in meno, a fronte di fenomeni come il raddoppio della popolazione della Nigeria, che con i suoi 340 milioni di abitanti previsti, è destinata a diventare il terzo Paese più popoloso al mondo, dopo Cina e India”.
– Sembra di capire che, comunque andrà, dobbiamo prepararci a grandi cambiamenti.
“Punti di non ritorno, in cui sarà fondamentale difendere i diritti di tutti. Penso ad esempio al futuro dell’acqua, che potrà continuare a essere pubblica a patto di avere un suo prezzo pilotato, misura indispensabile per evitare sprechi che non ci potremo più permettere”.
– E l’Italia come si sta preparando a queste grandi sfide?
“Con un certo affanno, dovuto alle sue carenze infrastrutturali. La grande siccità del 2017 non ha finito di colpire con il ritorno della pioggia: alla crisi dell’agricoltura, messa in ginocchio da una durata così lunga dell’anticiclone, vanno aggiunti i danni ingentissimi, e riparabili solo dove si può, a una rete idrica usuratasi prematuramente a causa del grande secco e del caldo record”.
– C’è qualcosa che può consolarci?
“Il nostro Paese ha una grande occasione davanti: far coesistere metropoli e capoluoghi dove ricorrere alle opportunità della tecnologia Smart, e tanti piccoli comuni e borghi in cui domina invece il modello socioculturale del chilometro zero, del turismo consapevole, dell’artigianato Tailor Made. Intrecciando global e glocal, l’Italia può diventare laboratorio a cielo aperto del futuro sostenibile”.