Cosa ci insegnano le alluvioni dell’Emilia Romagna e di Valencia
I social network, che per certi versi stanno modificando il nostro rapporto con la realtà, e non sempre in meglio, hanno il pregio di sbatterci in faccia quella stessa realtà in tempo reale e senza mediazioni. Ci siamo trovati così, più o meno tutti, attoniti davanti all’ennesima tragedia dell’Emila Romagna e, a distanza di poche settimane, al disastro immane di Valencia, il tutto passando per l’Uragano Milton in Florida.
Ma mentre gli uragano nel Golfo del Messico costituiscono un fenomeno noto, per quanto ora assai più violento e frequente (la Florida perde ogni anno inghiottito dal mare l’equivalente dell’isola di Manhattan), quello che avviene nel bacino del Mediterraneo costituisce per molti versi una novità assoluta, dal momento che il mare nostrum e i territori che vi si affacciano era considerato un ambito geografico felice, privo di eventi estremi, al punto da coniare un vero e proprio “clima” specifico, quello temperato, in grado di favorire, tra le altre cose, lo sviluppo di civiltà e una biodiversità straordinarie.
Oggi, il bacino de Mediterraneo viene considerato un hot spot per cogliere, estremizzate, le conseguenze del riscaldamento del pianeta, generando eventi climatici del tutto anomali, almeno a memoria d’uomo. Basti al riguardo un numero, a Valencia in otto ore sono caduti oltre 400 millimetri di pioggia, ovvero oltre 400 litri per metro quadrato, l’equivalente delle piogge di un anno e mezzo.
In un certo senso, quest’area sta diventando quello che era già da tempo la Polinesia e numerosi atolli del Pacifico che stanno letteralmente scomparendo, inghiottiti dal mare, con la differenza che, mentre le isole del Pacifico potevano sollevare una voce flebile rispetto ai grandi della terra, quando si parla di Mediterraneo entra in gioco l’Europa, ovvero la terza economia del mondo, e alcuni dei Paesi più influenti della Terra.
Procrastinare il problema della decarbonizzazione non è quindi più un’opzione possibile e vale lo slogan coniato qualche anno fa dal movimento per il clima, ovvero “procastinazione = negazione”.
Di questo avviso, malgrado le fortissime pressioni in atto, sembra essere anche Teresa Ribera, Commissario in pectore alla Transizione pulita, giusta e competitiva della Comunità Europea, che nel suo documento programmatico che presenterà al Parlamento a breve, sembra non voler fare passi indietro rispetto al timing del Green New Deal, pur ammorbidendo i toni per assecondare l’ala conservatrice della compagine che sostiene Ursula von der Leyen.
Il problema principale sembra il dover necessariamente andare in rotta di collisione con quell’1% di ricchi del pianeta che emettono col loro insostenibile stile di vita la stessa quantità di carbonio del 66% più povero dell’intera umanità. Cosa non proprio semplice, considerata la loro capacità di incidere sui decisori e la loro immensa capacità di spesa, favorita da una polarizzazione della ricchezza che costituisce l’altro aspetto del problema, dal momento che ha trasformato il mondo in una sorta di oligarchia non voluta.
Un’oligarchia che spinge in modo forsennato per investire su tecnologie futuribili e che mira a penalizzare quelle che sono qui e ora già disponibili, ma che sfuggono al loro controllo. Un tema lucidamente affrontato da Rebecca Solnit in un acuto articolo comparso sul Guardian, dove senza mezzi termini afferma “noi abbiamo già le soluzioni. E continuano a migliorare, nel senso che sono progettate meglio, sono più efficienti, più economiche. Dobbiamo solo metterle in pratica, ma queste soluzioni non piacciono a molte persone ricche e potenti. Proporre una strategia inesistente è diventata una scusa per non dare sostegno a quelle che ci sono”.