Rete BUL: il porto delle nebbie
L’ultima rilevazione di AGCOM sugli accessi alla rete fissa (dati a tutto dicembre 2022) fotografa una situazione che si discosta ben poco da quella del precedente quadrimestre. Le connessioni in rame sono ormai solo il 22% del totale, ma i progressi dell’FTTH sono ancora lentissimi, con una progressione che supera appena l’1% dal quadrimestre precedente e porta il dato totale al 17,5% a fronte di una copertura che, stando ai dati degli operatori, raggiungerebbe già circa il 44% degli utenti potenziali (dato prossimo alla media europea).
Sono tuttavia numeri che necessiterebbero di essere interpretati, dal momento che non è affatto chiaro che cosa significhi per gli operatori una copertura FTTH. A pensar bene potrebbe significare che l’operatore è arrivato alla base dell’edificio ed è “pronto” per connettere l’utente che ne faccia richiesta, realizzando in quel momento e solo in quel momento la tratta verticale interna agli edifici fino all’unità abitativa.
A rigor di logica, quindi, sarebbe più corretto parlare di fiber to the building (FTTB), più che di fiber to the home (FTTH).
Rimane il fatto che di tutte queste terminazioni al building, meno del 40% diventa un’attivazione del servizio, producendo alti ululati di dolore ai CEO dei principali operatori che vedono allontanarsi il loro ROI (return on investment), aggravando una situazione resa difficile da una marginalità ormai ai minimi termini.
Una dinamica che ha fatto immaginare che lo scorporo della rete di TIM e l’unione con quella di Open Fiber sotto la benedizione di Cassa Depositi e Prestiti (e quindi della longa manus dello Stato), potesse essere la panacea di tutti i mali, consentendo alle Telco di spostare finalmente la loro mission imprenditoriale verso i servizi, ovvero i veri grandi assenti fin qui. Uno scorporo che trovava la benedizione politica bipartisan dal momento che consentiva di riportare sotto il controllo governativo una infrastruttura strategica di fondamentale importanza, ma che finora non è bastata, perché si è scontrata con le richieste iperboliche dei francesi di Vivendi che non intendono uscire dalla partita senza un più che lauto compenso.
Ed è chiaramente un serpente che si morde la coda, perché la scarsa redditività degli investimenti sulla rete BUL si ripercuote sui conti di aziende già sommerse di debiti e vincolate ad un modello di business obsoleto e moribondo che tendeva monetizzare la semplice connessione, allargano inevitabilmente la forbice tra quanto viene richiesto da chi vende e quanto è disposto a spendere chi acquista.
Soltanto pochi giorni fa Antonio Scannapieco, AD di Cassa Depositi e Prestiti, alla Festa dell’innovazione del Foglio, lamentava che l’Italia è al terzultimo posto in Europa per utilizzo della fibra, senza però porsi la domanda conseguente, ovvero “perché?”.
Porre e rispondere a questa domanda è il fattore chiave di ogni ragionamento sul futuro delle TLC nel nostro Paese; perché, infatti, la gente dovrebbe passare da reti più lente a più performanti se non offriamo servizi d’avanguardia che rendano tali connessioni indispensabili?
E dove sta il business? Nella gestione della rete o nei servizi che trasporta? Lasciamo ai vertici degli operatori il compito, in realtà non molto difficile, di rispondere a questa domanda; ma se la risposta per caso fosse “nei servizi”, allora perché non spingere per far dotare tutti gli edifici di impianti proprietari in grado di abilitare tali servizi, che si porterebbero appresso anche l’adozione della BUL?