Se le disuguaglianze sono un problema anche per la sostenibilità
Uno studio del World Inequality Lab evidenzia le differenze macroscopiche di impronta ecologica delle diverse classi sociali e delle diverse aree geografiche del Mondo
Che la forbice tra i più ricchi e i più poveri del mondo si stesse allargando è cosa ben nota da parecchi anni, con una forte accelerazione nel periodo post Covid. Non di meno è noto da molto tempo il fatto che i Paesi ancor oggi più ricchi sono a tutti gli effetti i maggiori responsabili dell’inquinamento mondiale e, conseguentemente, del fenomeno del global worming, tema cavalcato dai Paesi più poveri o in via di sviluppo per giustificare il loro “diritto” ad inquinare.
Si tratta di due fenomeni paralleli che vengono monitorati costantemente dal World Inequality Lab della Paris School of Economics, il cui periodico Report costituisce una lettura assolutamente consigliabile a chiunque abbia qualche forma di responsabilità politica o economica e abbia a cuore quel bene comune e insostituibile che è il nostro pianeta.
Un primo dato che colpisce dall’ultima edizione del Report è, per esempio, quello che evidenzia come nella vecchia Europa il 10% più ricco della popolazione inquini quasi 6 volte in più rispetto al 50% meno abbiente.
Un fattore evidenziato dallo studio è anche come i maggiori inquinatori, dispongano, grazie alle loro ricchezze, degli strumenti migliori per attenuare l’impatto dei cambiamenti devastanti innescati dall’inquinamento stesso (per esempio i cosiddetti eventi estremi); il che determina un ulteriore paradosso, ovvero che chi più inquina subisce conseguenze minori rispetto a chi quell’inquinamento non lo genera, ovvero la componente più povera della popolazione.
Per rimanere entro il limite di +2 gradi centigradi stabilito dall’accordo di Parigi, le emissioni globali pro-capite dovrebbero limitarsi da oggi fino al 2050 a 3,4 tonnellate di anidride carbonica; attualmente però sono 6,6, ovvero circa il doppio. Ma come insegna la vecchia storiella dei due polli, la media statistica non costituisce un dato sociologico attendibile, dal momento che, per esempio, le emissioni medie del continente africano sub-sahariano sono di appena 1,6 tonnellate per abitante, mentre nel nord America si arriva a una media di 20,8. Il che significa che un cittadino nordamericano medio emette la Co2 equivalente di 13 cittadini dell’Africa sub-sahariana.
Un fenomeno analogo è rilevabile se guardiamo anziché alle aree geografiche, alle classi di reddito della popolazione mondiale, dove scopriamo che le emissioni dello 0,01% della popolazione più ricca sono 744 volte quello che dovrebbero essere per mantenere l’aumento delle temperature sotto i 2 gradi. Allargando lo sguardo, ciò significa che il 10% più ricco della popolazione mondiale (ovvero meno di 800 milioni di persone su quasi 8 miliardi) è responsabile della metà di tutte le emissioni di sostanze inquinanti nell’atmosfera. Mentre il 50% più povero contribuisce solo per il 12%.
L’ONG Oxfam ha evidenziato tre principali ragioni per cui le persone più facoltose causano più inquinamento. La prima riguarda lo stile di vita, caratterizzato da più comodità e lussi e quindi causa di maggiori emissioni; la seconda riguarda gli investimenti che le persone più ricche fanno nelle industrie inquinanti e il loro interesse a mantenere lo status quo economico corrente; la terza, infine, riguarda le influenze dirette che la fetta più ricca della popolazione ha sui media e sulla politica in difesa dei propri privilegi.
E quest’ultimo elemento determina a ben vedere un corto circuito pericoloso, perché questa attività aggressiva di lobbing rischia di disinnescare ogni politica volta a toccare i cosiddetti “poteri forti”, azione indispensabile per invertire una tendenza che, come si è detto, si traduce in danni sempre più gravi all’ambiente e agli strati di popolazione meno abbienti.