Tra sindrome “Nimby” e rendite di posizione: tutti gli sgambetti allo sviluppo delle fonti rinnovabili
Cosa ostacola lo sviluppo delle rinnovabili anche dove potrebbero fungere da svolta per quel Paese (e non solo)?
Il fotovoltaico non porta nulla alla Sicilia e quindi saranno bloccate tutte le autorizzazioni per installazione di impianti nell’Isola
Sono le parole sorprendenti del Presidente della Regione Siciliana Renato Schifani. In realtà soltanto l’ultimo sgambetto in ordine di tempo alle politiche di transizione energetica, frutto in questo caso della volontà di sfruttare una rendita di posizione, che vede la Sicilia come luogo ideale in cui produrre energia pulita al servizio della Sicilia stessa, ma anche del resto d’Italia e perché no, d’Europa.
La richiesta è quella ormai classica di ogni grande opera, ovvero di misure compensative a vantaggio della comunità locale che si accollerebbe un onere presunto a vantaggio di un territorio più vasto. E questo anche a condizione, è il caso del presidente Schifani, di smentire sé stesso e di entrare in rotta di collisione col Ministro Alfonso D’Urso, paladino dello sviluppo della Etna Valley, come polo strategico dello sviluppo delle rinnovabili in Italia.
Al di là delle beghe di bottega che non passeranno certo alla storia, il vero problema, si sa, è il contrasto strisciante tra la tutela del paesaggio e dell’agricoltura e lo sviluppo degli impianti per produrre energia pulita, sfruttando il vento e il sole. Un contrasto che ha un suo fondamento soltanto a condizione di affrontare l’argomento senza una visione d’insieme e senza una strategia.
Qualche dato per ragionare sui numeri reali e non sulle fantasie
In Italia la superficie agricola totale ammonta al 41,8% dell’intero territorio nazionale, di questi solo la metà è destinata alla coltivazione (peraltro in diminuzione). Ciò significa che circa 6 milioni di ettari vanno classificati come terreni agricoli residuali o non utilizzati.
A questo dato possiamo aggiungere che nel nostro Paese il consumo di suolo, ovvero l’edificato, ammonta a circa il 7% dell’intero territorio nazionale (molto di più rispetto ad una media europea del 4,1%), per una superficie totale di circa 2 milioni di ettari, dei quali una fetta significativa può (o meglio sarebbe dire “deve”) trasformarsi in tetti fotovoltaici.
Ma dobbiamo proprio costruire campi fotovoltaici in paesaggi di pregio, o a discapito della superficie coltivata?
O è un falso problema che sorge solo da una mancanza di seria pianificazione nazionale?
Studiosi accreditati affermano che sacrificando solo il 3% della superficie agricola non sfruttata per la produzione, destinandola a campi solari, si potrebbe soddisfare gran parte della domanda di energia del Paese. Ma se questo calcolo fosse reale, quanta energia sarebbe possibile produrre semplicemente dotando il patrimonio immobiliare di impianti per l’autoproduzione di energia?
La scelta strategica da fare, numeri alla mano e non a chiacchiere, è quindi quale modello di sviluppo abbiamo in mente e come realizzarlo. Abbiamo la necessità di replicare il modello di produzione di energia che era tipico delle fonti fossili (grandi centrali e sistema di distribuzione imponente), oppure il modello che le rinnovabili ci suggeriscono è più simile a quello della rete internet e del cosiddetto edge computing?
Se si desse una risposta chiara a questa domanda, avremmo probabilmente risolto alla radice tutti i problemi di incompatibilità e di piccole o grandi rendite di posizione che rischiano solo di frenare una transizione necessaria.