Transizione energetica negli USA e ritardi della politica europea
In un articolo recentemente comparso sul New York Times si è tentato di tracciare cosa stia accadendo a livello di transizione energetica negli Stati Uniti, con esiti per certi versi sbalorditivi, se pensiamo all’immagine stereotipata di un’America insensibile ai temi della salvaguardia ambientale e tutta presa a sfrecciare sulle highway su suv enormi e dai consumi mostruosi in barba al resto del mondo.
L’esito dell’indagine del celebre quotidiano newyorkese è illuminante per comprendere come oltreoceano si sia già ampiamente compreso quale debba essere la direzione da intraprendere non tanto (o non solo) per salvaguardare il Pianeta, ma per poter contare su un’economia competitiva nei prossimi decenni, in grado di confermare quella leadership planetaria che si era affermata nel corso del Novecento e che ora sembra messa in discussione dallo sviluppo della Cina.
Si scopre, per esempio, che nell’ultimo anno la produzione negli USA di energia solare ed eolica ha battuto ogni record in termini di crescita, al punto tale che le previsioni dei principali istituti di ricerca statunitensi valutano che già nel 2025 la produzione di energia da fonti rinnovabili supererà per la prima volta quella prodotta col carbone, diventando la prima fonte per la produzione di energia elettrica. Una dinamica favorita da un crollo dei costi della produzione di energia da solare ed eolico, che già oggi risultano spesso inferiori a quelli da gas, petrolio e carbone.
Allargando l’orizzonte a livello globale, è l’agenzia internazionale per l’energia a suffragare l’ipotesi di una fortissima accelerazione in atto, rilevando che già nel 2023 i sussidi statali per l’energia da fonti rinnovabili hanno surclassato quelli per la produzione da combustibili fossili (1.700 miliardi di dollari contro 1.000) e, per tornare agli Stati Uniti, la quantità di energia green prodotta si accinge a superare il 23% sul totale, quando solo 10 anni fa non superava il 10%.
In estrema sintesi, quindi, i giornalisti del New York Times ci dicono che la transizione energetica va molto più veloce del previsto, il che implica che il principale problema da affrontare, non solo negli USA ma a livello globale, è quello dell’aggiornamento delle infrastrutture della distribuzione che, a causa dell’aumento del consumo elettrico, devono essere in gran parte riprogettate e adeguate, sia a livello di grandi reti di distribuzione (come quella di Terna in Italia), sia di impianti proprietari negli edifici, come già ARERA aveva avuto modo di evidenziare, caldeggiando e creando a livello sperimentale le condizioni economiche per il rifacimento delle colonne montanti elettriche in Italia.
Un trend e, in cascata, una serie di azioni strategiche che richiederebbero politiche coese e coerenti, cosa che non sempre accade, dal momento che anche in questi giorni sentiamo figure istituzionali, sia a livello nazionale che continentale, tirare il freno sulla transizione energetica in atto che, viceversa, la società e l’economia dimostrano con i fatti di voler cavalcare.
Prova ne sia un’altra informazione che ci da sempre il New York Times e che dovrebbe schiarire le idee ai nostri timidi politici europei: ovvero ciò che sta accadendo in Oklahoma e in Texas, ovvero negli Stati del petrolio facile per eccellenza, dove è partita una gara senza esclusione di colpi per primeggiare nella produzione di energia pulita. Tulsa, già capitale mondiale del petrolio, sta per esempio diventando una sorta di attrattore mondiale di capitali per la transizione energetica, con anche la nostrana ENEL impegnata a costruire una fabbrica per la produzione di pannelli fotovoltaici del valore di un miliardo di dollari, sfruttando l’Inflaction Reduction Act di Joe Biden; mentre le pianure del Texas ospitano già alcuni dei campi eolici e fotovoltaici più grandi del pianeta, con Huston, già sede di oltre 500 società petrolifere, che oggi ospita anche 130 società attive nel campo della produzione di energia green, candidandosi a diventarne la capitale mondiale.
In tutto ciò dove sta l’Europa e dove sta l’Italia? Certamente gli strappi voluti dalla Commissione Presieduta da Ursula Von Der Leyen stanno sortendo i loro effetti, ma troppi politici nostrani e del continente sono intimoriti delle ricadute socio economiche della transizione che, indubbiamente, pone problemi nel breve termine, ma costituisce un’irripetibile occasione di sviluppo nel medio e lungo. Qui sta la vera difficoltà, dal momento che la politica di piccolo cabotaggio è per definizione miope e mira a capitalizzare nell’immediato. Ma nelle grandi fasi di transizione non ci si può permettere di essere miopi e quindi, prima di tutto da cittadini, ci guardiamo attorno alla ricerca di politici lungimiranti.