Rete unica e dintorni
La rete unica a prevalente partecipazione pubblica può significare, finalmente, un punto di svolta e un’occasione irripetibile per affrontare con lucidità e chiarezza un argomento fin qui ostaggio di veti incrociati. C’è da sperare che non venga sprecata.
Ho volutamente atteso qualche giorno dall’uscita della notizia della firma del memorandum of understanding che ha sbloccato la strada alla cosiddetta “rete unica” prima di scriverne.
Non tanto perché attendessi quello che si è regolarmente verificato, ovvero l’inizio di una trattativa che si preannuncia non semplice, con le prime scaramucce tra i francesi di Vivendi e Cassa Depositi e Prestiti, che dovrebbe assumere il controllo della nuova infrastruttura entro ottobre. Questo è nel novero delle cose “normali” nel momento in cui si mette mano di fatto ad una nazionalizzazione dopo una pasticciata privatizzazione.
La ragione per cui ho atteso era, viceversa, cercare di capire che modello di rete ci fosse dietro a questa grande operazione su una infrastruttura strategica del Paese che coinvolge i due principali operatori whalesale: Fibercop e Open Fiber.
Obiettivo del “MOU” sottoscritto a fine maggio è, per esplicita ammissione, la creazione di un solo operatore delle reti di telecomunicazione non verticalmente integrato (quindi whaolesale only), controllato per lo Stato da Cassa Depositi e Prestiti e partecipato dai gestori di fondi di investimento Macquarie e Kkr. E fin qui tutto bene. Tra i fini prevale quello di accelerare la diffusione della fibra ottica sull’intero territorio nazionale. E anche questo sembra condivisibile e ascrivibile tra le ovvietà di un’operazione come questa. Lascio volutamente perdere ogni valutazione sul valore della rete di TIM, dando per scontato che gli attuali azionisti tenteranno di capitalizzare il più possibile, come già hanno dichiarato rifiutando a priori la “svendita” dei loro asset.
Malgrado l’attesa, non ho viceversa letto una parola sul modello di rete che dovrebbe sottendere a questa grande operazione industriale. Proviamo quindi a capire verso cosa si potrebbe andare.
Gli ultimi bandi gestiti da Infratel sulle aree bianche e grigie, su precisa indicazione del Ministro Colao, hanno espressamente richiesto che la rete BUL giungesse fino al ROE d’edificio, ovvero al punto in cui la rete orizzontale si incontra con quella verticale. Una richiesta esplicita, volta ad evitare che reti in fibra che terminavano in non meglio precisati “pozzetti”, sovente ben lontani dagli edifici, venissero spacciate per reti FTTH (fiber to the home).
Un approccio condivisibile, come ho già avuto modo di scrivere, dal momento che il ROE (ripartitore ottico d’edificio) è anche il più naturale punto d’incontro tra la rete degli operatori (ora bisognerebbe dire la rete unica) e l’infrastruttura privata d’edificio, quasi si trattasse di un contatore di una qualsiasi delle altre commodities. Da quel punto in poi, peraltro, sono sorti i maggiori problemi della rete FTTH che, infatti, procede con incredibile lentezza, con un’adozione che supera ancora di poco il 10% delle connessioni a livello nazionale.
Difficoltà denunciate dagli operatori che hanno portato l’autorità garante ad emettere, nel settembre 2021, delle liee guida per dirimere i contenziosi tra gli operatori stessi e i proprietari immobiliari, nelle quali, tra le altre cose, si impone che le fibre dedicate a telefonia e dati siano gestite in IRU solo ed esclusivamente da operatori iscritti al ROC, anche se realizzate da operatori qualificati e pagate dai privati cittadini.
Tutto apparentemente per soddisfare la richiesta degli operatori di poter assicurare un servizio “end to end” e per non ammettere la più naturale delle cose, ovvero che il ROE non è soltanto un punto d’incontro tra rete in fibra orizzontale e verticale, ma è anche un naturale punto di confine, un punto oltre il quale c’è un cambio di responsabilità perché si passa da uno spazio pubblico ad uno privato.
A questo punto, con un occhio alla futura “rete unica”, sorgono alcune domande che provo ad enunciare nel più semplice dei modi, sperando che qualcuno abbia la bontà di rispondermi:
- Perché per assicurare il cosiddetto servizio “end to end” il secondo “end” deve stare all’interno dell’unità immobiliare dell’abbonato e non all’inizio del suo impianto proprietario, ovvero alla base dell’edificio a valle del ROE?
- Perché si accetta tranquillamente che all’interno della singola unità immobiliare i segnali possano essere distribuiti tramite impianti proprietari e questo, viceversa, non si accetta che possa avvenire dalla base dell’edificio alla singola unità abitativa?
- Come non capire, rivolto ad Agcom, che prevedere due tipologie di tecnici abilitati a mettere le mani su un unico impianto (perché tale è l’impianto multiservizi) può essere foriero solo di montagne di contenziosi?
- Perché, rivolto al MISE, la recente modifica all’Art. 135bis del Testo Unico dell’Edilizia ha previsto che a registrare i nuovi impianti verticali nel SINFI siano gli uffici tecnici comunali, notoriamente sprovvisti delle necessarie competenze, e non, come avviene da sempre per il catasto immobiliare, dai professionisti abilitati che hanno realizzato l’impianto?
Rispondere con chiarezza a questi interrogativi significa, a conti fatti, avere un’idea chiara dell’architettura di rete che sottenderà al progetto “rete unica”, auspicabilmente riconoscendo che gli impianti all’interno degli edifici devono far capo ai proprietari immobiliari, il che vuol dire nient’altro che allineare le telecomunicazioni a tutte le altre forniture, molte delle quali decisamente più pericolose di un fascio di dati.
A maggior ragione se usciamo dallo specialismo dei tecnici delle telecomunicazioni ed apriamo la nostra visione in senso olistico, dal momento che tra i temi più caldi che abbiamo sul tavolo come Paese c’è la transizione energetica che investe sia gli edifici che la mobilità e, attraverso la mobilità nuovamente gli edifici, poiché l’infrastruttura di ricarica è prevalentemente collocata presso i luoghi di residenza. Significa in altri termini affrontare il tema cruciale della “Digital Energy”.
La rete unica a prevalente partecipazione pubblica può significare, finalmente, un punto di svolta e un’occasione irripetibile per affrontare con lucidità e chiarezza un argomento fin qui ostaggio di veti incrociati. C’è da sperare che non venga sprecata.